Aperte le iscrizioni ai corsi 2022/2023 della Scuola Ombre Meridiane
1 Settembre 2022Montescaglioso seconda tappa per la presentazione della Scuola Ombre Meridiane
21 Settembre 2022C’è un paradosso che regola il rapporto, spesso declamato e propagandato, tra cinema e didattica, tra cinema e insegnamento, tra cinema e formazione, cinema e scuola. Tra, se vogliamo andare in profondità, la possibilità di trasmettere competenze legate alla visione o alla pratica del cinema o dell’audiovisivo e il grado di crescita culturale di una comunità estesa.
Il paradosso riguarda l’accostamento di queste competenze (partendo da quella obbligatoria: saper guardare consapevolmente un film, uno spot, un prodotto audiovisivo, una clip) a una funzione “servile” rispetto ad altre discipline, con riferimento in particolare ai programmi scolastici. Il film – per rimanere al cinema, a quello che occupa sicuramente un ruolo guida tra i linguaggi visuali più complessi – viene spesso citato e adoperato come oggetto al servizio di materie altre. Per intenderci: quando parlo della Seconda guerra mondiale, in Storia, faccio vedere ai ragazzi (o chiedo loro di vedere) Roma città aperta di Rossellini. Quando parlo di Giacomo Leopardi, organizzo un paio d’ore con Il giovane favoloso di Martone. Quando parlo del Fascismo, a maggior ragione se sono nelle vecchie terre di Lucania, “sintetizzo” Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi nel Cristo di Rosi. Entrambi imprescindibili, come tra loro diversi, autonomi, paralleli. Entrambi qualcosa di più, di più profondo e di verosimilmente contemporaneo.
Il film come surrogato. Il film come riempitivo. Il film come conferma del libro, del manuale.
Il problema (inteso come spazio problematico di riflessione) è che i film di Rossellini, Martone e Rosi, come tutti gli altri film, che siano o non siano associabili a materie del curriculum scolastico, sono e saranno sempre oggetti autonomi. Vivono come opere d’arte indipendentemente dal resto, con linguaggi, storie, epoche, modalità espressive e significati propri, paralleli, unici. Questa unicità (che poi è quella di tutto il cinema come arte, esperienza popolare, come storia ed estetica, come stile e linguaggio, come palestra di produzione del senso) dev’essere vissuta in quanto opportunità, perché tale è. E come tale deve durare.
Il campo sul quale è decisivo combattere la battaglia della consapevolezza da parte delle generazioni che studiano investe una prospettiva più di sistema, se vogliamo strategica. In gioco non c’è tanto questo o quel film, questo o quel programma scolastico, questo o quel focus a partire dalla materia o dall’unità didattica. In gioco c’è la coscienza critica di un’intera generazione che, primariamente e prevalentemente, usa le immagini come essenziale (se non esclusiva) interfaccia con il mondo esterno e di cui, nella maggior parte dei casi, poco sa. Ci serviamo (a proposito di qualcosa che sta al servizio, ma che deve anche servire) di uno “strumento”, di un linguaggio, di un mezzo, di un patrimonio, di un apparato iconico del quale non consociamo i modi d’essere: come funziona e, fattore ancora più decisivo, come decodificarlo, come maneggiarlo.
Il film a scuola, il cinema in classe, la regia video, il montaggio ormai tra le mura domestiche sono la punta dell’iceberg di qualcosa che agisce più in profondità, attraverso smottamenti e riassestamenti, e che cambia in maniera radicale il nostro rapporto democratico con gli altri, con la realtà esterna, con la visione adulta del mondo.
Questione di democrazia, certamente. Questione di pensiero libero, sicuramente. Ma anche e soprattutto questione di pensiero critico. Perché ciò che il cinema, i film, le immagini possono davvero insegnare, accanto ad acquisizioni teoriche e a competenze tecniche, è la liberazione dello sguardo, è il pensiero critico. Se Rossellini, Martone e Rosi, per tornare agli esempi precedenti, pensano in un certo modo, Pasolini, Scorsese, Kitano, Antonioni, Fellini pensano invece così. E Truffaut, Miyazaki, von Trier, Fincher, Coppola, Herzog, Fassbinder, Bellocchio, Wenders, Lanthimos, Mizoguchi pensano in quest’altra maniera. Ogni sguardo una storia, ogni storia un’immagine, ogni immagine un accesso diverso, multiforme, ricco al mondo e, in definitiva, a noi stessi. Un’agorà democratica di idee che ci aiuta a guardare e a guardarci, a capire.
Andare a scuola di cinema vuol dire non solo questo, ma anche questo. Con un obiettivo, però. Guardare, capire, confrontare democraticamente il pensiero che arriva dai film e dalle immagini non in un’ottica autarchica e asettica. Guardare, capire e pensare per agire, con la convinzione che questa coscienza critica allargata possa orizzontarci in ciò che scegliamo, e in come lo facciamo, in ciò che accade, e in come lo facciamo accadere, senza subire passivamente scelte e accadimenti altrui.
Un pensiero operoso, in fin dei conti, un cercare per agire, per maneggiare prima di tutto le immagini, le immagini del mondo, e subito dopo il nostro posto attivo tra le cose.