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«Vedere (bene) per capire (meglio) e per viversi, nella convinzione che l’identità (della persona) sia convalidata, temprata e finanche creata proprio dalle immagini. “Do you see?”, chiede Dollarhyde a Freddy Lounds, una delle sue vittime in Manhunter – Frammenti di un omicidio: nel cinema di Mann vedere è proporzione e misura delle cose; è lo sguardo, anche quando condannato a disperdersi nel vuoto, a formare la realtà e il film. L’immagine, nei film di Michael Mann, è vita».
Scrive così Pier Maria Bocchi nella prefazione alla nuova edizione revisionata e aggiornata del suo volume Michael Mann. Creatore di immagini (pubblicata di recente da minimum fax). E tocca sin da subito uno dei cardini dell’intera opera manniana: il dialogo costante, estenuante, quasi fisico fra il contemporaneo e lo sguardo di uno dei protagonisti dell’immaginario cinematografico odierno.
La produzione e l’estetica del regista americano si collocano pienamente dentro il corpo di Hollywood, con la capacità però di trascenderlo e, quindi, di superarlo. Un regista transhollywoodiano, come si legge nella prima parte del libro, perché abile nel lavorare dentro il sistema Hollywood, con le risorse e il denaro di Hollywood ma, allo stesso tempo, con l’intento di “sabotarlo”, di adeguarlo al proprio immaginario, al proprio modo di intendere il set, lo stile, la macchina, il circuito, anche e soprattutto quando, con i suoi film, Mann è stato in grado di anticipare iconograficamente il cinema americano degli anni Ottanta mettendo in scena un punto di vista poco allineato a quel sistema. Mann è un autore che conosce l’epoca (le diverse epoche dove si è collocato), che conosce il “processo-film” e che, con una sensibilità maniacale a tratti autodistruttiva, sa di dover rielaborare le cose appropriandosene, rimasticandole, riproponendole in chiave altamente soggettiva. Modello tipico di questo discorso è il noir, il genere che definisce Michael Mann, rimaneggiato il più delle volte dichiarando un’anima profondamente mélo: questo accade per le ricadute sentimentali del racconto, per i codici musicali, per il velo visivo delle immagini; in definitiva, per quella forma di attrazione tragico-romantica che lega personaggi opposti, corpi opposti, ideologie opposte (un detective e un serial killer, per esempio, che arrivano persino a condividere il piacere di guardare e riguardare, di immaginare il gesto folle). Ciò che all’apparenza sembra l’esecuzione sapiente degli stilemi di genere si trasforma, immediatamente dopo, in una lucida – ma anche sentimentale – riflessione sul ruolo dell’autore, sul destino dello spettatore, sulle forme della visione.
In questo corpo consapevolmente ferito (di Hollywood, degli eroi e degli antieroi, del genere, se vogliamo) si inserisce quello che Pier Maria Bocchi chiama lo «iato manniano», una frattura nella continuità, una sospensione che si insinua all’interno della narrazione con vuoti improvvisi che fanno collassare il racconto per un tempo breve. Una bolla visivo-sonora che sembra non essere coerente con ciò che si sta osservando a che, nella sua collocazione e nelle sue ricadute, ha un senso fondamentale: sono immagini che interrogano e sfidano lo spettatore, rimettendo in moto il suo sguardo “comodo” (anche quando superficialmente si percepiscono non in linea con le vicende narrate o con il singolo momento), solleticando nella discontinuità una riproposizione del ruolo attivo dell’osservatore (anche quando si ha l’impressione di aver colto il significato del tutto al di là della scena particolare).
Parlare allora di Michael Mann oggi, scrivere di Michael Mann oggi, rivedere i suoi film non allineati ad alcuna forma di standardizzazione e normalizzazione, oggi, rappresentano da un lato passaggi di pensiero e di storia dei film da praticare in ogni caso, dall’altro gesti contemporanei per misurare le cose, per comprendere la realtà che ci attraversa. Una buona parte di immagini che vediamo oggi in Tv, al cinema, condivise su monitor e schermi, senza rischio di estremizzare, ha un’origine nel modo di fare e di vedere adottato da questo regista ossessivo e imprevedibile, nel suo cinema transhollywoodiano, appunto. Un cinema capace di modellare le immagini che tuttora ci abitano, con la capacità – e la forza – di intercettare scelte di stile e scelte di sguardo che continuano a parlare di noi, delle forme del mondo e delle forme di vita.